Sono un giornalista che scrive, parla e fotografa. Una passione: la bici da corsa. Un sogno: riuscire a far capire anche quello che non capisco.

UN LIBRO DI ALDO GERBINO..Cos’è dunque che muove Aldo Gerbino a interagire con pittori e artisti che vengono a incrociarsi con la sua strada? Si potrebbe parlare genericamente di “sicilitudo”” e magari far ricorso a una famosa definizione che della sicilianità ha dato Leonardo Sciascia: “la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivi di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte… ( dalla premessa di Paolo Ruffilli )PUBBLICHIAMO DUE TESTI DI ALDO GERBINO

[Filippo de Pisis, da “Ombre”, in Poesie, 1942]

E dunque il vaso, i suoi fiori, la vita nella pena del bianco

nel brodo di parole cagliate in grumi ispidi, in steli,

in corolle, per sensi accesi del corpo, sull’anima, sul cuore

ombroso, sul cuore sughero leggero. D’ogni solitudine,

dell’assenza, del rovello ansimante dentro la vita,

il supremo confine della luce del mondo. Sul tavolo questi

fiori non son tutto; ora il pennino, il calamaio, la pelle fragile

d’una pansé. Di colpo ogni cosa non si riflette più allo specchio:

tela, pigmenti, anime, rendono non la propria ma altrui vite

la loro angoscia la loro gioia priva di appartenenze.

Così, per tutto questo, avvertiamo echi, perdita di vólti,

pur rimanendo intatta, tra grovigli di rametti e conchiglie, la voce,

il tepore del pappagallo di de Pisis, il suo verso: Oieop oieop oieop,

l’amata piuma di Cocò, incorniciato da un “balcone fiorito”.

11. El caballero de la triste figura (Don Quijote)

da “Tre movimenti per Bruno Caruso”

Le rughe, le pupille, il laccio assorto al giugulo,

ecco, sul corpo, non tanto le sdruciture della vita

le labbra esangui di Dulcinea, o la sapienza

di Sancho colta dal Meli (medico, chimico, poeta),

ma ogni melanconia del Sud: ciascun sogno in cui

incerta naviga la vita stessa, la dignità, la grazia,

il debito assoluto della poesia.

La tristitia per il male che ci governa sta ancora

nel laccio di cuoio, nelle cuspidi della sierra,

nello stupore acido che cola dal cielo della Mancia.

Ecco, di Don Chisciotte, la corona rada dei capelli

su cascami di pelle, l’altezza struggente del vólto.

Esso plana lieve, regale ancora sulle modeste

ambizioni del nostro tempo, pronto alla misericordia,

munito del gesto salvifico che porge al fuoco la mano

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