Sono un giornalista che scrive, parla e fotografa. Una passione: la bici da corsa. Un sogno: riuscire a far capire anche quello che non capisco.

di CALOGERO PUMiLIA

Alcuni amici con i quali su Facebook mantengo un intenso e fertile scambio di opinioni, manifestano talora una forte preoccupazione per la presenza, a loro dire, massiccia e insidiosa, dei comunisti in Italia. Alcuni argomentano questi timori con buoni riferimenti culturali, altri si limitano a denunciarne l’insidia e di comunisti ne vedono più di quanti, negli anni passati, ne vedeva Berlusconi, prima di stipulare un patto con Renzi che guidava il Partito Democratico e di dare il sostegno al governo presieduto dal quel pericoloso “bolscevico” di Enrico Letta. Per l’età, ahimé più avanzata di quella di molti di loro, posso dire di avere conosciuto i comunisti veraci e di averli contrastati nelle sezioni di partito, nei consigli comunali, nelle aule parlamentari e nelle piazze.  Di loro più volte ho scritto senza nessuna tentazione agiografica. Ad un certo punto della mia vita politica sono entrato in una “tenda” nella quale c’eravamo parte di ciò che rimaneva della vecchia Democrazia Cristiana e parte di ciò che residuava del vecchio Partito Comunista Italiano. Sono entrato in quella tenda perché la “casa” nella quale  avevo vissuto per molti anni era crollata a causa della nostra negligenza nell’approntare gli indispensabili interventi di restauro, dei colpi inferti dai suoi avversari – ex comunisti, poteri politici, economici e mediatici nascenti e vincenti, parte della magistratura e, forse principalmente, perché le fondamenta su cui poggiava il sistema politico del quale la DC aveva rappresentato il perno, erano state pesantemente scosse dal terremoto che, a Berlino, fece crollare il muro. 

Nella nuova tenda, con i coinquilini non fu tutto facile – sono stato perfino chiamato compagno -, e, al suo interno, ho scorto alcuni tic vetero comunisti, i residui di una presunta diversità antropologica, punte di giustizialismo che nulla avevano a che fare con il marxismo e che veniva semmai da un partito che, da anni, come scrisse Augusto Del Noce, era diventato un partito radicale di massa, definizione ripresa da Luca Ricolfi per il Partito Democratico quando, peraltro, le masse si erano notevolmente assottigliate e quando il capitalismo e il pensiero unico del globalismo avevano incantato “beffino” e gli altri. Costoro, ancor prima di alzare la nuova tenda comune, facevano a gara per scrollarsi di dosso la cultura e la tradizione del marxismo leninismo, rimanevano in fila per essere ammessi nei salotti buoni della borghesia industriale e finanziaria, lavoravano accanitamente per accreditarsi presso i governi dei più grandi Paesi dell’occidente e magari mandavano qualche aeroplano a bombardare Belgrado per acquisire una medaglietta di benemerenza. Coloro che avevano predicato, non si sa con quanta reale convinzione, l’abolizione della proprietà privata e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, andavano a ripetizione di liberalismo per imparare in fretta i suoi concetti essenziali e da essi trovare la motivazione per smantellare ciò che restava dell’apparato industriale pubblico, in parte svendendolo. Il comunismo, quello con il pugno chiuso, ha dà vanì, Baffone e le bandiere rosse erano scomparsi insieme alla classe operaia ed era stata smantellata la chiesa, laica ma non meno dogmatica di quella religiosa che indottrinava, inquadrava ed insieme organizzava ed educava la gente alle battaglie per i propri diritti e per il riscatto economico, quella chiesa che, pur professando l’appartenenza al “vaticano” moscovita, ad un certo punto, presa da eresia, si allontanò, seppur mantenendo una qualche nostalgia e un qualche rapporto sul terreno del sostegno finanziario, meno su quello della fedeltà teologica.

Del resto, i comunisti furono sempre ben felici di avere evitato di introdurre in Italia riti e organizzazioni di tipo bolscevico e a un certo punto si sentirono più protetti dal Patto atlantico che da quello di Varsavia, per arrivare a praticare per qualche tempo, una sorta di parziale Bad Gotesberg, dopo una sorta di faticosa e parziale collaborazione con la Democrazia Cristiana, e poi sostituire alla questione sociale e ai tradizionali riferimenti ideologici la cosiddetta questione morale, un tentativo, cioè, di coprire con riferimenti etici la difficoltà a rimanere in sintonia con la società che cambiava e a trovare le risposte politiche idonee a quei cambiamenti. Quando fu piantata la tenda, quei processi erano andati molto avanti, i partiti erano stati sfrondati dalle motivazioni ideologiche e spesso da quelle culturali, avevano assunto identità incerte, erano diventati liquidi come la società, avevano preso forme padronali, mentre il PD – qualcuno era andato persino in America a prendere il nome -, magari in modo incerto e con fatica, rimaneva uno spazio di confronto, rifiutando ogni appropriazione personale e, semmai, proseguendo lungo la tradizionale strada della sinistra che elegge democraticamente i propri leader e poi si appassiona nel distruggerli. Quel PD oggi prende i voti del centro delle città – le ZTL -, è scomparso quasi del tutto dalle periferie e parla non certo di rivoluzione o di presa del palazzo d’inverno, ma di diritti individuali piuttosto che di bisogni collettivi e personali; e i suoi aderenti, con qualche benevolenza, possono essere ritenuti dei riformisti, senza alcuna tentazione di procedere ad espropri proletari che, anzi, le volte che si accenna alla pura ipotesi di introdurre la patrimoniale o di chiedere un contributo di solidarietà ai ricchi, si affrettano a tranquillizzarli. 

continua 

CALOGERO PUMILIA

 E’ presidente della Fondazione Orestiadi di Gibellina. Giornalista. Deputato al parlamento per 5 legislature. Più volte sottosegretario di Stato. Già consigliere di amministrazione delle Poste e presidente di Poste. com. E’ stato pure sindaco di Caltabellotta. Ha scritto numerosi libri. Tra i quali : Attraversando la politica e Ti la scordi l’America .

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