Sono un giornalista che scrive, parla e fotografa. Una passione: la bici da corsa. Un sogno: riuscire a far capire anche quello che non capisco.

di CARMELO FUCARINO

Fa una certa impressione vedere la cartina dello Stivale maculata e condannata a seconda della gradazione dei quattro colori forti, nella varietà che segna il solito rosso come estremo pericolo passando per l’arancione e il giallo fino a dissolversi nel bianco, il non colore. Ed è anche una allegoria su cui riflettere che è la Sardegna la sola regione in atto candida, oggi detta ‘free’ con uno degli abusati inglesismi. Una volta questi intrusi in linguistica si chiamavano barbarismi e dobbiamo elogiare, comunque finisca la sua storia mirabolante, il finanziario Draghi che le ha stigmatizzati, nonostante unanimemente sia encomiato per il suo perfetto inglese dopo tanti balbettii dell’ultimo primo ministro e del più compromettente ministro degli esteri, che dovrebbe conoscere almeno quelle europee più importanti. E ancora più lo smarrimento mi prende se solo rifletto che il lunedì 18 febbraio 1861 nell’anfiteatro costruito dall’architetto Amedeo Peyron nel cortile di palazzo Carignano, dove era nato il buontempone Vittorio Emanuele II, a corto di aule parlamentari per simile numero si sarebbe inaugurato il nuovo Parlamento del Regno d’Italia (21 milioni di abitanti), appena un anno prima regno sabaudo di Sardegna (5 milioni di abitanti), con il giuramento dei neo parlamentari, presenti in quinta fila il generale Garibaldi, l’eroe dei due Mondi (e dell’umiliante ed emblematico ‘obbedisco’), e Alessandro Manzoni in seconda fila, i due idoli dei tempi futuri.

il parlamento italiano al museo del risorgimento di Torinon

In quel giorno di 160 anni fa era tenuta a battesimo con pompa magna, altisonanti panegirici, ‘fuochi di aria artificiali’, cori e musiche da opera fino a tarda notte il nuovo Regno della secolare Italia letteraria, quel giardino dell’Impero di Dante e luogo dell’affascinante Gran Tour settecentesco. Nel discorso della Corona ricorre un aiuto che sarebbe divenuto canonico «l’Italia libera e unita quasi tutta, per mirabile aiuto della Divina Provvidenza», premonizione di altro pontificio uomo della Provvidenza. Al deputato Brofferio che avrebbe voluto che si dicesse “proclamato dal popolo” Cavour impose la formula: «Il re Vittorio Emanuele II [si badi, non I] assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia» (articolo unico legge 17 marzo  1861, n. 4671). Anche Napoleone si era incoronato da sé Imperatore. Il nuovo Regno si era fatto attraverso  una serie di annessioni, convalidate dalla finzione dei plebisciti, Gattopardo docet (del reazionario Tomasi), con il beneplacito dell’imperatore Napoleone III, convinto dalle grazie della contessa di Castiglione, in servizio segreto dall’astuto conte Cavour. Lei stessa manifestò tale modesta presunzione, uno dei suoi sogni: «Vorrei che restasse come leggenda ai posteri e in ricompensa Nazionale la sola grande cosa che ho fatto da me, l’Italia». Ma era in tutti i discorsi di quell’apertura il punto fermo: era avvenuto il miracolo, pensato e discusso da tanti storici, proposto in tutte le salse, dalla Giovane Italia di Mazzini che rimandava alla Giovane Europa, al progetto federalista di Carlo Cattaneo, alla soluzione papale di Vincenzo Gioberti con il suo Del primato morale e civile degli Italiani.

Tutto da quell’accordo di Plombières del 1858, e da quel «non insensibile al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi». Tanta retorica e tanta storia scritta per i Savoia, trasmessa dal patto con Mussolini e trasmigrata pari pari nella Repubblica italiana, dottrina quasi religiosa nelle scuole a cominciare dalle elementari. Dall’equivoca definizione di Risorgimento, – quando era già sorta? -, equivoco quanto il Rinascimento, i ricordi della liturgia scolastica dei medaglioni di eroi di tutti i tempi, il patetico Pietro Micca o Amatore Sciesa o il Balilla-ragazzo di cattiva sorte, dall’Italia di Metternich, “espressione geografica”, all’imperativo attribuito a D’Azeglio, «Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani». Ci furono la leva obbligatoria e le trincee dell’Adige per farli, le ferrovie costruite dai Rothschild con la Cassa depositi e prestiti, sudore dei reietti. Ma ancora ci sono gli Italiani? L’Italia, nata con un’anima divisa tra accentramento e decentramento, oggi, dopo la Padania di Miglio e di Bossi, si ritrova nel vortice dell’epidemia travolta da un campanilismo, da una dissennata esplosione di autonomismo da decenni latente, che la colorazione ha messo in sfacciata evidenza. Basta l’arcaica e antistorica denominazione di Governatore: ognuno vorrebbe adottare decreti per i propri sudditi, in difesa, si dice, del lavoratore, ma attraverso l’imprenditore. Tra baristi e ristoratori, cinema e teatri, artigiani di ogni tipo, più lacrimevoli quanto più in altri tempi diseredati. Fanno più patetico. Suicidata la fratellanza si acclama la soluzione della salvifica sorellanza. Forse sarebbe il caso di rileggere la storia di questo osannato Risorgimento, anche con il rischio subito sbandierato di revisionismo. Da quel 1861 la storia d’Italia, prefabbricata dal regime che su essa basò la sua autenticazione e legalità è stata scritta per sempre. Appena qualcuno prospetta una lettura al di là del fanatismo e dell’agiografia subito si taccia di revisionista. Eppure nel nostro Parlamento non si è previsto il divieto di cambiare casacca, dal momento che non si rappresenta più il popolo che lo ha eletto.

Si può cambiare opinione e progetto, perché non la lettura della storia che è stata scritta dai Governi al potere? Da chi e come è stata fatta la storia d’Italia? Se parlo della rapina della Sicilia a cominciare dai tempi di Nievo, sono becero revisionista? E dello stato di assedio per mezzo secolo con la scusa dei banditi? Eppure qualche revisionismo è concesso a Nord con le foibe e a Sud con certe epoche. Non è invece possibile rivedere i processi di formazione dell’economia italiana, senza le mirabilia della Milano lavoratrice, ma con la ricerca della provenienza dei capitali impiegati per tali miracoli? Ecco i colori e le richieste del campanile e delle categorie strumentalizzate dai piccoli leader sono l’Italia che è e quella che non è stata, l’Italiano preconizzato ad inizio di conquista (così definì Dumas la spedizione dei Mille in un suo celebre testo, tranne poi a cambiare titolo). A scanso di equivoci giuro che l’Unità era necessaria e nella natura delle cose e sarebbe avvenuta da secoli senza il Papato e che un Garibaldi si sarebbe dovuto inventare, se non fosse esistito. Fu il metodo che ancor mi offende, del quale piangiamo ancora le conseguenze come Isola diseredata, colonia sfruttata che spera in un ponte unificatore.

CARMELO FUCARINO

CARMELO FUCARINO

Laureato in lettere classiche, ha insegnato italiano e storia negli Istituti Superiori di Palermo e ,dal 1980 fino al 1997, latino e greco al liceo Garibaldi di Palermo. Poeta, è autore di due raccolte di liriche Città e ancora città, Il Vertice Editore, e Percorsi di labirinto, Thule Edizioni. Ha pubblicato una Grammatica di greco antico per i tipi della Paravia

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