Sono un giornalista che scrive, parla e fotografa. Una passione: la bici da corsa. Un sogno: riuscire a far capire anche quello che non capisco.

( Montevago, uno dei comuni del Belice distrutto dal sisma, in uno scatto di Giaramidaro 50 anni fa.  Puoi cliccare sulla foto per vedere le altre immagini   )

 ( Nino Giaramidaro )

di GIOVANNI PEPI

Il terremoto che cinquant’anni fa inghiottì i comuni del Belice, aprì una ferita che non si è chiusa. Abbiamo a lungo aspettato la ricostruzione, la rinascita, le stagioni migliori. Tutto è stato lento, contraddittorio, stentato, scandaloso , precario. E  resta vivo il ricordo delle sensazioni peggiori. Nino Giaramidaro, giornalista e fotografo, fu tra gli inviati più attenti della tragedia. Quali sono, Nino, i tuoi pensieri più vivi di quei giorni ?

“L’alba del giorno 15 vista dal ciglio della statale 119 era sgomento. Più il sole avaro rischiarava, più la distruzione si rivelava incredibile, dolorosa, senza nemmeno un’oasi di salvezza nella Gibellina di tufi, gesso e canne. Un calamaio pieno rovesciato sulla topografia del Belice.  Questo il bilancio alla fine del traballante viaggio tra brevi scosse, scempio di strade e paesi demoliti come da un cieco bombardamento a tappeto. Poggioreale, Montevago , Salaparuta e, tornando indietro, Santa Margherita, Menfi, Partanna, Santa Ninfa e Salemi.”

Non tutto fu subito chiaro..

“No. L’ inviato di un grande settimanale, in “gessato” e lucide scarpe inglesi,  commentò forbitamente: ‘Insomma, vecchie casupole, un danno economico di poco rilievo’. Mentre migliaia e migliaia di persone andavano e ritornavano in una transumanza impazzita, senza meta, alla ricerca di un ricovero. Poi fu tutto tutto chiaro: l’inferno aveva fatto sua la Valle

Tutto fu travolto. Nulla fu uguale a prima..

“ No. Si fu alla tragica mutazione. L’archivio del comune di Salemi diventò distributore di pane, scuole, piazze e uffici dei comuni meno colpiti si trasformarono in luoghi di rancio, distribuzione di coperte, sedie, brande, lettini con cittadini che si facevano in quattro per sorreggere vecchi, donne e bambini.

Poi la grande fuga, Uomini senza cose,  persino animali. Scappavano tutti….

“ Tutti… Momenti indimenticabili, senza spazio per la commozione perché dovevi subito mettere i piedi nel fango per tirare su gente stremata, affamata che voleva scappare ancora con i vestiti infradiciti dalle piogge. Assalti ai vagoni, anche merci, nei binari morti, a Montevago le ex strade invase da bestiame in fuga, e i soccorritori con mascherine e fazzoletti sulla bocca per resistere al fetore di morte. “

il ricordo più bello ?

“ La felicità di un bambino a piedi nudi che aveva conquistato un paio di stivali di gomma nuovi. Alcuni ragazzini con le buste di latte condensato della Poa, poi diventata Caritas, strette al petto. L’ingresso di una famiglia nella prima tenda dello sterminato accampamento di Castelvetrano.

Il ricordo più brutto ?

“ Un pezzo di Sicilia profuga, ancora attonita mentre i volontari scavavano perfino con le mani nel tentativo di trovare le vita. Come fece Ivo Soncini, pompiere di 20 anni, per tirare fuori dalla montagna di tufi, a Gibellina,  Eleonora Di Girolamo: la teneva in braccio, sorridente e in lacrime, era Cudduredda, 6 anni e mezzo con gli occhi nerissimi, viva. Morì tre giorni dopo di polmonite in ospedale. Un inviato di Life, che aveva guardato a lungo quegli occhi neri, non riuscì a scrivere una sola riga.”

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